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Antonio Prudenzano intervista Manuel per Affaritaliani.it
Manuel Agnelli, leader degli Afterhours, parla di tutto, ma proprio tutto, con Affaritaliani.it, a partire dal suo rapporto di amore-odio con Milano, città in cui l’artista è nato e cresciuto e dove sabato il suo gruppo suonerà (al Palasharp è previsto l’ennesimo tutto esaurito…). Dalla più che probabile partecipazione a Sanremo, all’incredibile successo all’estero della band (che in Italia, con l’ultimo disco “I milanesi ammazzano il sabato”, è arrivata al terzo posto nella classifica dei dischi più venduti); dalla passione personale per l’archeologia, alla scarsa considerazione per gran parte delle giovani band italiane di oggi… davvero un Agnelli (icona rock nazionale) a tutto campo
Agnelli, quello del Palasharp sarà l’ennesimo concerto dei suoi Afterhours a Milano.


“E’ sempre una sensazione speciale, soprattutto per me che a Milano sono nato e cresciuto, in zona Navigli, da bambino. Qui vengono tanti amici a vederci, e si viene a creare una tensione positiva molto particolare. A Milano, poi, abbiamo dedicato, sin dal titolo, il nostro ultimo album”.

Avete in programma qualcosa di speciale per la data meneghina di sabato?


“Con noi After ci sarà una sezione di fiati. E’ già successo, sempre a Milano, in occasione del Film Festival a settembre, oltre che nelle tappe di Roma e Torino. Di sicuro proporremo anche molti brani che non suoniamo da tanto. Ci piace fare così. Inoltre, avendo un repertorio ormai vastissimo, diventa una necessità. Poi, devo ammettere che con la nuova formazione della band, le cose stanno andando, ad ogni livello, bene come mai prima. Gli Afterhours che suoneranno al Palasharp sabato sono in una forma eccezionale”.

Ricorda il primo concerto milanese del suo gruppo?


“Sinceramente no, forse all’Helter Skelter, nell’ ’87, ma non ne sono sicuro. A Milano abbiamo suonato tante di quelle volte…”.

E tra queste tante “volte”, qual è quella che ricorda con più piacere? E quella (se c’è) che vorrebbe invece dimenticare?


“Ci dovrei pensare. Probabilmente il più bello è stato il live del 1996 al Parco Acquatica. Il peggiore? Non c’è. Tra i più difficili, non peggiori, quello con i Mercury Rev nella prima parte del tour di “Quello che non c’è”. Ma la colpa non era certo di Milano, né tanto meno dei Mercury, bensì solo nostra, che uscivamo da un periodo terribile…”.

Il suo rapporto personale con Milano, da sempre contraddittorio, a che punto è?


“Io sono milanese al 100%, a Milano ho vissuto ¾ della mia vita. Se parlo spesso male di questa città, è semplicemente perché la amo. La sogno diversa, più vivibile. Si è perso il senso di appartenenza al luogo, che ormai hanno solo quegli extracomunitari che vanno a mangiare nei parchi. Loro sì che sono una comunità viva. I milanesi si sentono burattini in balia delle istituzioni. La politica locale è repressiva, vessatoria, oltre che diseducativa. Faccio un esempio piccolo: i vigili mi sembrano sempre più come i Bravi dei Promessi Sposi del Manzoni, sempre pronti ad infierire. A Milano non esiste la politica sociale. Figurarsi quella culturale…”.

E’ per questo che è andato a vivere in provincia?


“Sì, certamente. Per ritrovare, oltre che la tranquillità, visto che adesso ho una compagna e una figlia piccola, anche il senso di appartenenza e di amore per il luogo in cui vivo.

Vista la credibilità di cui gode tra i giovani, non le è mai venuto in mente di fare politica? Magari, per cambiare le cose, potrebbe essere lei il nuovo sindaco di Milano…


“Già l’ambiente della musica italiana fa schifo, figurarsi quello della politica…”.

Basta parlare di Milano e di politica, allora. Veniamo agli Afterhours. Quindi a Sanremo ci andate sul serio?


“Non c’è ancora nulla di ufficiale, ma siamo molto grati a Bonolis (che stimiamo professionalmente) per il suo invito, e lo stiamo valutando molto seriamente. E’ un’ipotesi probabile. Se avremo la possibilità di restare noi stessi, non c’è alcun motivo per non andarci. Anzi. Non sopporto l’autoghettizzazione tipica del mondo musicale alternativo italiano. La nostra sarebbe anche una risposta alle tante critiche da parte dei fan pseudo-integralisti che certamente arriverebbero”.

Per gli Afterhours (dopo il recente ricambio interno) il momento sembra ottimo.


“Assolutamente. Questa è la migliore formazione che gli After abbiano mai avuto ad ogni livello. Senza nulla togliere a chi c’era prima, tecnicamente Roberto Dell’Era (basso), Enrico Gabrielli (fiati e non solo) e Rodrigo D’Erasmo (violino elettrico) sono eccellenti. C’è grande amicizia tra noi, sintonia musicale, e obiettivi comuni. E’ davvero un momento fantastico!”.

Quindi non le è mai venuto in mente di fare un disco solista?


“Adesso no di sicuro. Mentre invece, tra il 2003 e il 2005, prima della registrazione di Ballate per piccole iene”, quando eravamo diventati un gruppo-azienda, dove in tanti venivano a timbrare il cartellino, non nego che l’idea mi sia passata per la testa. Non c’erano più rapporti umani”.

Perché preferite suonare all’estero?


“Siamo più liberi musicalmente. Fuori dall’Italia chi viene ai concerti non ci conosce e non si aspetta nulla da noi, che dobbiamo riuscire a coinvolgerli. Sul palco si crea più tensione. Ma questo non vuol dire che non ci faccia piacere suonare davanti a migliaia di fan in delirio come ci accade in Italia. Sono situazioni molto diverse da loro, ma entrambe emozionanti”.

A quando il nuovo disco degli Afterhours?


“Se davvero dovessimo andare a Sanremo, non faremmo uscire subito dopo, come fanno tutti, un nuovo disco, sfruttando l’effetto-pubblicità, ma al massimo un singolo. Il nuovo album non arriverà prima del 2010”.

Cosa pensa dei giovani gruppi italiani?


“La maggior parte ha poca personalità, non rischia. Trionfa una mentalità vigliacca e provinciale. C’è troppo individualismo. Hanno paura di confrontarsi, ed è anche un problema di ignoranza”.

Quindi non esiste più quella scena che lei ha contribuito a far crescere grazie al Tora Tora Festival?


“Manca la consapevolezza di essere una scena. Quella fu una bella esperienza di amicizia, tra noi gruppi c’era un forte senso di comunità”.

Almeno i Baustelle le piacciono?


“Sì, molto. Hanno personalità, e qualcosa da dire, che non è poco. Solo che non sono una band giovane, hanno già quattro album all’attivo…”.

A livello personale, invece, dopo “Il meraviglioso tubetto”, sta preparando una seconda prova letteraria?


“No, mi sono già esposto tanto con quella raccolta di racconti. Non ho più voglia di passare per il musicista che si mette a scrivere. Preferisco coltivare altri interessi…”.

Quali?


“Amo studiare la storia antica. Se non ce l’avessi fatta con gli Afterhours, ora probabilmente sarei un archeologo. E poi adoro viaggiare, e purtroppo la vita da tour non mi permette di vivere come vorrei le città in cui andiamo a suonare. E infine, quando posso, amando lo sport, cerco di tenermi in forma…”.