05.07.2006 Roma
location: Ippodromo 'Le Capannelle'
recensione: grazie a Mariagloria Fontana
È trascorso più di un decennio da quando vidi per la prima volta gli Afterhours, fu durante la manifestazione prenestina Nel nome del rock. Era appena uscito Germi ed eravamo poco più di una ventina in estasi per brani allora semisconosciuti come Strategie e liriche atipiche per il panorama italiano come quelle di Dentro Marilyn. Hanno cambiato come pochi altri il modo di suonare rock in Italia. Mercoledì all’interno del “Romarock festival”, dopo ben 25 concerti americani e canadesi, gli Afterhours sono tornati in patria esibendosi per la prima data italiana. Migliaia di famelici appassionati della band sono accorsi. L’apertura affidata ai Sux non è proprio memorabile. Il gruppo del chitarrista degli Afterhours Giorgio Ciccarelli non ha dimostrato nulla di nuovo né di significativo rispetto alle attese, se non prolungare il tempo che divideva noi dalla band milanese. I loro pezzi strumentalmente ridotti all’osso e una vocalità da principiante sembravano quasi una creazione estemporanea. Dopo più di quaranta minuti di Sux, finalmente la band sale sul palco accolta da un boato di consensi. Si inizia con un trittico di pezzi tratti da Ballate per piccole iene. Il suono della “nuova” formazione risulta essere ben amalgamato con punte raggiunte stasera dalla vocalità di Agnelli che non sbaglia un colpo. Rompe il silenzio È la fine la più importante, nella quale la chitarra distorta di Agnelli si fa sentire abbondante e furiosa. La forza delle venature pop di “La vedova bianca” produce un coro di numerosissime voci che canta a squarciagola “c’è qualcosa dentro di me che è sbagliato e non ha limiti”, la personificazione di un rapporto invasivo quanto inevitabile come quello fra noi e loro. E durante l’accompagnamento del tempo con il battito delle mani, incitato anche da Agnelli, questo mistero per cui riesca a ricevere ampi consensi nonostante scriva liriche di una profondità agghiacciante “nel tuo letto la novità è fare a pezzi l’anima…ma la violenza della stabilità è un modo di morire a metà” fa ben sperare, ma rimane tale… Sulle labbra ha la forza delle contorsioni chitarristiche sino all’apoteosi finale in cui in diminuendo si spengono e lasciano posto al pianissimo della malinconica voce di Agnelli. Sangue di Giuda è cadenzata dal giro di basso disadorno quanto efficace e dalla ritmica asciutta di Giorgio Prette per poi mutare in intimo duo solo sax e voce. Ma la vera intensità la si tocca, per l’ennesima volta con Dentro Marilyn. La capacità di sintesi di emozioni che Agnelli sa descrivere e suonare con una semplice profondità è rappresentata da pezzi come questo (peccato per l’acuto…). Non è per sempre è la splendida rappresentazione dell’autentico pop intelligente, come nel nostro bel paese non si produce sovente. Un assolo di sax dell’eclettico polistrumentista Enrico Gabrielli introduce una versione inedita di Ballata per la mia piccola iena. In bilico fra rock ’70, ricerca di nuove sonorità e pop nell’accezione più alta del termine si sta producendo un caleidoscopico intreccio di sensazioni acide, vibranti e melodie intense. Milano circonvallazione esterna è eseguita da Agnelli con l’ausilio dei campionamenti con cui gioca sapientemente il tuttofare Gabrielli, con gli interventi del violino di Dario Ciffo e del basso destabilizzante di Roberto Dell’Era. Con Non sono immaginario, tornano i riffoni lisergici di Agnelli. La ballata Come vorrei presenta un Manuel alle tastiere e voce coadiuvato dal sax e dal violino per raggiungere vette di altissima suggestione emotiva. L’ovazione di chi conosce quegli anni accoglie 1.9.9.6. con un’introduzione in lingua inglese, supportata da una versione strumentale delle tastiere stile moog che riecheggia i Beatles!! Sui giovani d’oggi ci scatarro su adempie la vena compiutamente rock della band con tanto di urla sguaiate e perfettamente sguainate( davvero “in serata” Agnelli come non ricordavo da tempo). Grande momento introspettivo per Icebox, vecchio pezzo del primo album inglese During Christine’s sleep datato 1990. Non ancora soddisfatti, riescono a spiazzarci con Oceano di gomma, in cui si tocca la massima introspezione e interpretazione. Agnelli è nuovamente alle tastiere solo con la sua voce calda e coinvolgente. Pervasivo connubio di parole e musica per uno dei pezzi più melanconici del live. Terminerebbe qui il concerto se non fosse che il pubblico immobile non vuole andare via e reclama la loro necessaria presenza. Accontentati tutti. Manuel rientra con gli altri e con fare provocatorio afferma di aver letto cose spiacevoli su alcuni siti. Avrebbero dato loro dei buffoni: “quella che avete definito una scenetta quando rientriamo sul palco ogni volta per il bis…non lo è…se avete voglia di sentirci non avete che da dirlo. Noi siamo qui e vogliamo suonare”. Detto e fatto, si riparte. Cose semplici e banali vira su sonorità di natura melodica meno acide dell’originale. Quello che non c’è è proprio ciò di cui abbiamo necessità, oltre ogni visibile,il luogo disturbato e disperante. Il lungo strumentale finale viene un po’ dimezzato ma assume connotati molto prog, oserei dire kingcrimsoniani. Nell’unità la forza di questi musicisti rodati dall’esperienza, ma soprattutto nella personalità e nel talento di un autore rock e non solo come Agnelli, degno musico che rende disperatamente poetica la realtà, anche quella più incoffessabile. Poi spetta all’ormai “inno generazionale” Non si esce vivi dagli anni ’80 che ha l’effetto di riportarci sul minimale ed invitante giro di basso delle strofe per trasalire attraverso il climax condotto dalle chitarre estenuanti. By bye bombay va a chiudere. Il bombardamento sonoro esplode con un reiterato ritornello, sviscerato sino allo spasmo. Manuel usa l’asta del microfono come se fosse un plettro contro la chitarra che stride, urla di infuocata rabbia. Sono cresciuti a dismisura, non restando mai uguali a se stessi, come ogni loro concerto non è mai il medesimo. È come se stasera avessimo assistito al sunto di tutti questi anni. Fra caustica ironia e immensa malinconia, i due registri della band si sono equilibrati e commisurati fra di loro, ne è uscito un mix equo ed efficace immerso in una varietà di suoni. Abbiamo attraversato una vita intera con Agnelli, dagli esordi irriverenti con scritture burroughsiane passando attraverso l’oscura dimensione introspettiva sino ad una ritrovata compiutezza. Oggi tutti questi elementi e una maturità compositiva da fare invidia convivono assieme. Sempre alla ricerca, sempre catartici indagatori dell’incubo umano della quotidianità. Salutano, ringraziano, ma noi siamo convinti che un grazie lo dobbiamo a chi sa descrivere persino quello che non c’è con così rarefatta poesia e disperazione ridestando gli animi. Forse Agnelli e soci sono riusciti nella difficile impresa di mediare fra elemento apollineo e dionisiaco della nostra realtà…
Mariagloria “lipsticktraces” Fontana